Home Forums 10 – FARE il cambiamento Educazione civica alla democrazia ed alla partecipazione Rispondi a: Educazione civica alla democrazia ed alla partecipazione

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Pjdik
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In relazione all’interessante incontro di oggi, desidererei sottoporre alla vostra attenzione alcune considerazioni tratte dagli scritti di Padre Nazareno Taddei sulla differenza tra “leggere e vedere” la Tv o l’immagine.

Padre Taddei ha teorizzato la Strategia dell’algoritmo contornuale di cui mi sono occupato scrivendo un progetto Unesco per le scuole nell’ ambito del CICT Council for Cinema, Television and Audiovisual Communication (www.occam.org ). Per chi volesse leggerlo è sufficiente mandarmi una mail.

Il testo su vedere o leggere l’immagine è un po’ lungo ma ne vai la pena. Resto a vostra disposizione per ogni chiarimento o discussione sull’introduzione di “Pillole di educazione civica” e naturalmente sulla Teoria massmediale di N. Taddei

<b>Leggere» la televisione non è «vedere» la tv. Ma non è facile. «Leggere» vuol dire non già cogliere quello che la tv ci fa vedere e ascoltare, bensì cogliere quello che il comunicante televisivo (cioè l’autore della trasmissione) di fatto comunica. Chi sia poi l’«autore» della trasmissione è problema che dovremo vedere a parte. «Vedere» è, appunto, cogliere solo quello che la tv ci fa vedere e ascoltare.</b>

<b>«Leggere» vuol dire, di fatto, superare il rischio del pericoloso errore che viene dal confondere la realtà con la sua immagine. Non è piccolo rischio, perché di fatto la riproduzione televisiva (e non solo televisiva) della realtà non permette una vera conoscenza diretta di quella realtà, bensì comunica l’interpretazione che di quella stessa realtà ha fatto l’autore dell’immagine. Questo apparentemente piccolo equivoco è alla base della massificazione (cioè del condizionamento psicologico, della colonizzazione del cervello), insito nel linguaggio dei media in generale, ma particolarmente nella tv.</b>

<b>Ben oltre la teledipendenza</b>

<b>Limitarsi a «vedere» è non solo esporsi al rischio del condizionamento, bensì è essere già, poco o molto, schiavizzati dalla tv. Però, non nel senso della teledipendenza, come comunemente s’intende. La teledipendenza è una sorta di schiavitù che porta ad affidarsi alla tv come tempo e anche come contenuti; non se ne può fare a meno; è un «vizio»; qualcosa di invincibile come il fumare: si arriva a casa e si accende la tv anche se magari si hanno altre cose da fare; si prende dalla tv il modo di vestirsi, di arredare la casa, di gestire, di organizzare gli incontri, di festeggiare certe ricorrenze, di usare certi modi di dire, certe parole, certo linguaggio, come se tutto quello che la tv fa vedere e ascoltare fosse la bocca della verità, il non plus ultra del vivere civile e moderno.</b>

 

<b>Lo sanno bene le imprese che si servono della tv per pubblicizzare i propri prodotti; lo sanno bene certi autori di libri o anche certi politici o certe attricette in cerca di carriera, disposti a pagare fior di milioni per partecipare a qualche trasmissione… importante.</b>

<b>La teledipendenza è un vincolo (per dir così) esterno al mondo delle capacità intellettive e relativi strumenti interiori, come appunto l’abitudine del fumo, che uno magari sinceramente depreca e ritiene abitudine da cui vorrebbe liberarsi, ma non ci riesce.</b>

<b>Il condizionamento di cui, invece, noi parliamo è un influsso che opera all’interno del mondo intellettivo, cioè impone nuovi modi di vedere il mondo, di considerare i rapporti vicendevoli, di sentire i problemi della vita. È qualcosa che va al di là delle soglie del cosciente; qualcosa che riceviamo senza accorgerci di ricevere, che ci tocca non già all’esterno, bensì all’interno del nostro mondo intellettivo; è come una malattia che ci si sviluppa dentro senza farsi sentire come disturbo o come dolore, però ci mina l’organismo.</b>

<b>È il fenomeno che noi chiamiamo delle «comunicazioni inavvertite». Esso è alla base della formazione della mentalità.</b>

<b>Questo è l’influsso effettivo e più determinante della tv; proprio perché è inavvertito come contenuto e come influsso. È tenendo conto di questo fenomeno, più che dell’influsso «diretto», considerato comunemente, che si può rispondere ai vari interrogativi sugli effetti buoni o cattivi della tv.</b>

<b>la tv ha un reale influsso sul comportamento degli spettatori? Ma la risposta non può essere univoca; bisogna infatti vedere di che genere di influsso si tratti, se influsso diretto e immediato o influsso nel tempo e in profondità; di quali telespettatori come categoria o come individui e simili.</b>

<b>In altri termini, ci troviamo di fronte a tre problemi: a) la tv ha o non ha influsso «diretto» sulla vita concreta dello spettatore?; b) cos’è in concreto il fenomeno delle «comunicazioni inavvertite» e della mentalità?; c) come mai generalmente si parla solo dell’influsso «diretto»?</b>

<b>Vediamo sommariamente.</b>

<b>L’influsso «diretto»</b>

<b>Noi non escludiamo un influsso «diretto»; ma non si può rispondere semplicisticamente «sì» o «no». Come minimo, bisogna considerare il problema dalla parte dello strumento (la tv) e dalla parte del recettore (il o i telespettatore/i).</b>

<b>Considerando lo strumento, in questo ambito dell’influsso «diretto», non possiamo non considerare soprattutto tre cause: a) la capacità informativa; b) la caratteristica universalizzante; c) la suggestione imitativa.</b>

  1. <b>a) la capacità informativa: è chiaro che la tv mi può informare (bene o male), anche solo mediante uno spettacolo filmico di varietà, sul modo di organizzare un gioco o una rapina, su quello che pensa una certa persona, a torto o a ragione, circa un determinato argomento; e cosí via. Può rientrare in questo tipo di influsso (ma fino a un certo punto), ad esempio, la propaganda politica: uno che sa esporre bene le proprie ragioni, anche se di per sé stesse ingannevoli, convince piú facilmente dell’antagonista che non sa esporre bene le proprie, che magari sono quelle giuste.</b>

<b>Ed entra in questo capitolo anche il problema dei «modelli» comunemente ammessi.</b>

  1. <b>b) la caratteristica universalizzante e generalmente positiva: un medico che esprime il proprio giudizio (magari personale e dichiarato tale), viene preso tendenzialmente come se lui fosse la bocca della verità e quello che dice fosse il responso della scienza medica.</b>

<b>Questa caratteristica ha un notevole peso, ad esempio, in quelle interviste volanti su cosa pensa la gente in una data circostanza; ma su questo aspetto specifico ritorneremo, perché può essere strumento di imposizione mentale sugli spettatori.</b>

  1. <b>c) la suggestione imitativa: dal modo di vestire o di arredare la casa al modo di considerare, ad esempio, l’uso delle armi, è talmente evidente questo tipo di influsso che non vale la pena di soffermarcisi.</b>

<b>Ma a questo punto occorre considerare anche l’aspetto del telespettatore: occorre ben distinguere da tipo e tipo di contenuti: l’uso di prodotti pubblicizzati in tv o di comportamenti di circostanza prende più o meno tutti, perché, volere o volare, se non ci si conferma ai modelli televisivi si passa per retrogradi o persone di scarso buon gusto (salve eccezioni, che però spesso confermano la regola). Ma quando si tratti di fatti delittuosi, l’influsso non è così generale: tocca persone psichicamente o psicologicamente deboli e indifese o persone già alla ricerca del malvivere.</b>

 

<b>L’influsso sulla mentalità</b>

<b>La mentalità è «il complesso delle idee allo stato di opinione», idee, cioè, che entrano in noi senza che noi ce ne accorgiamo; ed è all’origine di gran parte del nostro agire quotidiano. Idee allo stato d’opinione noi le abbiamo prese dall’ambiente in cui siamo nati e cresciuti, dalla formazione scolastica e professionale. Ma molte ci vengono direttamente o indirettamente dai mass media, particolarmente dalla tv.</b>

<b>La tv, infatti, è certamente un’enorme cassa di risonanza; ma è soprattutto formatrice di mentalità e, di più, della tipica mentalità massmediale, che è di natura quantitativistica e quindi, sostanzialmente, materialistica. Quindi anche facilmente consumistica, secolaristica.</b>

 

<b> Le «comunicazioni inavvertite» contribuiscono enormemente alla produzione televisiva di mentalità, perché sono «idee allo stato d’opinione», che sono prodotte in maniera quasi naturale proprio dai linguaggi massmediali, soprattutto la tv. Il processo è semplice; talmente semplice da sembrare incredibile.</b>

<b>L’immagine audiovisiva dinamica del cinema e della tv si presenta come «finestra sul mondo»: ho visto la partita in tv; ho sentito con le mie orecchie il saluto del Presidente, ecc. E invece tu non hai visto né la partita, né sentito il Presidente: tu hai visto l’immagine audiovisiva della partita e del Presidente. Ma – primo punto – l’immagine della realtà, non è la realtà; secondo punto: nel fare l’immagine il suo autore, proprio per la necessità imposta dal mezzo tecnico, ha dovuto subordinare la rappresentazione della realtà alle esigenze della tecnica riproduttiva; terzo punto, nella scelta dei modi di riproduzione, l’autore ha dovuto fare delle scelte circa la realtà di cui vuol dare notizia (perché l’immagine è bidimensionale e la realtà tridimensionale, perché il tipo di obiettivo e di angolazione influisce sulla resa della rappresentazione, perché il quadruccio della telecamera isola una porzione di realtà e quindi l’autore di fatto dà una propria interpretazione della realtà.</b>

<b>Succede così che lo spettatore, credendo di essere informato («finestra sul mondo») – e lo è, ma fino a un certo punto – riceve invece delle idee circa quella realtà, idee che egli non si accorge di ricevere.</b>

 

<b>Perché ci si ferma al solo influsso «diretto»?</b>

<b>Penso che purtroppo di veri studiosi del fenomeno (studiosi su base linguistico-scientifica e non commerciale), ce ne siano molto pochi e anche quei pochi forse interessa che non si facciano sentire. I praticanti della tv, per quanto esperti nel condurre le trasmissioni sono specialisti (quando lo sono) in questo campo, ma non in quello del reale influsso del mezzo che adoperano. del resto, nessuno probabilmente lo ha loro insegnato, dal momento che la tv è un business, per il quale comunemente la morale e il bene spirituale della gente sono i pregiudizi di un’ideologia retrograda.</b>

 

<b>Al di là di quello che appare dalla provincia di Verona mi dicono che nel marzo ‘94, prima delle elezioni politiche, è stato effettuato un sondaggio informale in quattro classi quinte, per un totale di circa cento ragazzi, di un Istituto tecnico commerciale e per geometri. Circa il 65% dei ragazzi ha detto che avrebbe votato per Berlusconi. Le motivazioni sono state le seguenti: 1) Berlusconi è uno che ci sa fare; basta vedere quante aziende possiede e riesce a gestire; 2) Berlusconi è un vincente, lo si vede dalla faccia e dal comportamento; 3) Berlusconi è il presidente del Milan, grande squadra, e siccome io sono milanista, voto per il «mio» presidente.</b>

<b>Un altro caso: domenica 29 gennaio 1995, prima della partita di calcio Genoa-Milan, viene accoltellato a morte un giovane genoano; il lunedí seguente il giovanissimo assassino confessa piangendo e chiede perdono. Grandi paroloni sulla violenza negli stadi; e le autorità sportive decidono il black-out completo delle attività sportive per la domenica successiva (è qualcosa e anche bene, ma da non illudersi sia sufficiente; il problema va cercato più a monte).</b>

<b> </b>

 

<b>  </b>

 

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<b>«Leggere» e «vedere»</b>

<b>«Leggere» la tv non è facile; è invece facile «vederla». Ma la differenza tra l’una e l’altra cosa è enorme, sotto il profilo sociale e morale.</b>

<b>«Vedere» la tv significa cogliere solo quello che si può cogliere delle cose rappresentate come fossero realtà: ad esempio la storia di un film, quello che un politico afferma più o meno convincentemente o simpaticamente; la gradevolezza delle persone o dei fiori o degli animali che vengono mostrati. Ma ciò significa anche mettersi in balia delle «comunicazioni inavvertite». E poiché i contenuti delle comunicazioni inavvertite non sono esattamente quelli degli argomenti o delle cose che vengono presentate, bensì sono contenuti tendenti a una visione consumistica, materialistica, secolaristica ed egoistica della vita, si possono capire facilmente le gravissime conseguenze del limitarsi a «vedere».</b>

<b>«Leggere» la tv, invece, significa anzitutto cogliere il vero significato delle cose che ci si fanno vedere o ascoltare: ad esempio di un film non ci si limita a cogliere la storia, bensì si coglie quello che l’autore ha voluto esprimere o ha espresso di fatto con quella storia.</b>

<b>Ma c’è di più: «leggendo» e non solo «vedendo» la tv, si può arrivare a essere in grado di dare vere valutazioni delle trasmissioni e delle cose che vengono trasmesse: valutazioni certo artistiche, ma anche tematiche, pedagogiche, sociali, morali. Se gli spettatori sapessero «leggere» non si divertirebbero certo ad alcune trasmissioni deleterie per la formazione sociale della gente, oltre che molto gravose economicamente, e non si lascerebbero certo abbindolare da trasmissioni di politica-spettacolo che hanno contribuito e continuano a contribuire alla confusione mentale, anche in politica, della nostra gente. Ma soprattutto, con la «lettura» ci si può accorgere delle «comunicazioni inavvertite», evitandone i pericoli o, quanto meno, riuscendo ad attenuarli nelle loro conseguenze.</b>

 

<b>È abbastanza semplice cogliere il motivo della difficoltà tra «leggere» e «vedere»: in tv, quello che s’è visto e sentito è già passato e non si può richiamare indietro per rivedere, risentire, capire bene quello che di fatto ci è stato comunicato. In termini tecnici: la tv è un’immagine realmente spaziale e realmente temporale. È la grossa differenza col giornale stampato e anche col cinema.</b>

<b>Il film in tv non ha generalmente il grande schermo e non lo puoi rivedere; ha però il filo della storia che aiuta. Ma la tv non è solo film, anche se i film sono il genere maggiormente seguito. La tv è notiziario, è varietà, è incontri di persone che parlano tra loro e discutono; è anche documentario. Tutto, però, immagini che sfuggono non appena le hai viste e ascoltate.</b>

<b>Per poterci ritornare sopra è necessario registrare; ma chi ne ha la possibilità pratica o almeno la voglia? Non si può certo registrare tutto e poi rivederselo. Puoi prepararti la registrazione di qualcosa che ti interessa; ma come fai a prevedere se un Tg o una qualsiasi trasmissione ti offrirà qualcosa che non vorresti perdere?</b>

<b>Eppure, questo della registrazione è l’unico sistema per poter fare una vera «lettura».</b>

 

<b>Si presentano, comunque, due modi di «leggere» la tv: il primo, quello legato al modo consueto di vederla, cioè senza registrare e cercare di leggerla nel suo scorrere e passare; il secondo, quello di registrare la trasmissione che interessa e andarsela a rivedere, magari più volte, per cogliere esattamente le parole che sono state dette, le immagini che sono state mostrate.</b>

<b> </b>

 

<b>Pre-categoria</b>

<b>Potremmo definirla la «pre-categoria dei teleutenti».  </b>

<b>Dovrei dire di costoro con dante: «Non ti curar di lor; ma guarda e passa!». Ma non lo posso, perché proprio questi sono quelli che costituiscono lo zoccolo duro dell’odierna società telemassificata, si tratti pure di persone di cultura o di seri professionisti, perché essi di fatto si fanno sempre piú disponibili a seguire come pecore quello che viene loro imposto: ovviamente, senza che se ne rendano conto, anzi credendo di essere liberi e padroni, perché non si sentono legati allo schermo, potendo seguire o rinunciare a quello che la tv mostra in quel momento, potendo cambiar canale, abbassare l’audio, addirittura non vedendo se non a spizzichi, ecc. ecc..</b>

<b>Per il nostro studio, è una categoria desolante ma interessante.</b>

<b>Per teleutenti di questo genere, il «leggere» è pressoché impossibile. Non solo, ma è pressoché impossibile anche il cogliere fosse pur solo l’informazione al suo primo stadio, quello che noi già riteniamo insufficiente a evitare le «comunicazioni inavvertite».</b>

<b>Tuttavia, purtroppo, anche in questi casi la tv porta i suoi infausti influssi di massificazione.</b>

<b>Ci sono, infatti, due aspetti da considerare: il primo, quello della precarietà dell’informazione ricevuta; il secondo, quello del fondo mentale che si viene a poco a poco formando in loro.</b>

<b>La precarietà dell’informazione</b>

<b>Se l’informazione è audiovisiva, cioè visione più ascolto, è chiaro che essa non è completa se viene a mancare una delle due componenti.</b>

 

<b>Come facciamo, infatti, a cogliere l’idea dell’informatore circa l’evento (e indirettamente una certa notizia dell’evento), se quell’idea è espressa dal connubio tra visivo e sonoro, nel complesso della struttura televisiva? Si prenda il caso, non infrequente, di quando, in una trasmissione di persone che discutono: mentre uno dei presenti espone il proprio punto di vista, il regista fa vedere il suo antagonista che disapprova con la testa e con l’espressione del volto o delle mani. Evidentemente, intenzione del regista è quella di sminuire l’importanza o la credibilità del parere di colui che sta parlando e quindi la comunicazione effettiva non è quella delle parole che vengono dette da quel tale, bensì che quelle parole sono discutibili. Quindi è come se quel parere non fosse del tutto attendibile. Analogamente, ma al contrario, se, mentre quello parla, il regista fa vedere gente che approva. Su questo criterio di comunicazione coartata e quindi fasulla, è impostata la presenza di pubblico in sala che applaude, nei vari spettacoli di varietà.</b>

<b>La vera impostazione d’una notizia audiovisiva dovrebbe risultare dal connubio del visivo e del sonoro (soprattutto parlato). Ma non è così, perché – come accennerò – il vizietto oggi è quello invalso nei documentari della Prima Repubblica: fare un testo che dica il tutto e mettere qualche immagine che bene o male illustri.</b>

<b>E non dimentichiamo che non possiamo pretendere troppo, soprattutto in tempi in cui i vari regimi, anche democratici, si servono della cosiddetta informazione per tirare l’acqua al proprio mulino…</b>

<b>Comunque, la cosa veramente importante da notare è che «la notizia di un evento non è l’evento (di cui essa tratta)»; infatti, è la stessa informazione che costituisce l’evento ed è solo attraverso la «lettura» della notizia che noi potremo arrivare in qualche modo (più o meno bene) all’evento di cui si tratta.</b>

<b>Prendiamo il caso di un telegiornale. Purtroppo, oggi i tg generalmente sono impostati su un testo (che offre – bene o male – la notizia) e ci sono poi le immagini, le quali, nella migliore delle ipotesi, integrano la notizia, facendo vedere qualcosa della realtà cui essa si riferisce: ad esempio un auto della polizia che corre o a prendere o a portare l’arrestato; il muro squarciato da una bomba; un gruppo di persone macilente e tristi; ecc.</b>

<b> E «leggere» la notizia significa cogliere l’interpretazione che dell’evento ci ha voluto dare l’autore della notizia ha voluto darci un’informazione autentica o farci credere qualcosa che a lui interessa farci credere?</b>

<b>Convinciamoci di un’altra verità già accennata: l’informazione (e non solo quella televisiva) è in mano a precisi «regimi» (che ovviamente si dicono democratici, ma non lo sono), per i quali la cosiddetta informazione è un mezzo per raggiungere scopi di parte o di business, dei quali non fa certo parte il dovere di tenere informata la popolazione.</b>

<b>Oggi (e non solo da noi) non ci si può attendere informazione autentica, purtroppo. Ma l’unico modo di superare la barriera è proprio quello della «lettura strutturale», che qui cerchiamo di illustrare e che effettivamente presenta delle difficoltà, sia nel rendersi conto della sua necessità, sia nel capire in che cosa essa veramente consista, sia nell’imparare a realizzarla.</b>

<b>Se la «lettura strutturale» già non è facile per quello che si registra le trasmissioni onde poterle «leggere» veramente e se è molto difficile per chi segue la tv in tempo reale, essa è praticamente impervia per la categoria dei «saltellanti», soprattutto perché essi si privano delle condizioni basilari e indispensabili.</b>

 

<b>Col «saltellare» si coglie un’informazione distorta; ma questo è il male minore. Il male maggiore è quello delle comunicazioni inavvertite e conseguente mentalità che si viene a formare.</b>

<b>In altre parole, per un preciso processo psicologico («l’habitus si forma con la ripetizione degli atti»), si acquisisce un’abitudine mentale formata di varie componenti: abitudine, anzitutto, a non dare il dovuto conto a chi sta comunicando con noi; in secondo luogo, a far prevalere la simpatia o l’antipatia sulla ragione; in terzo luogo, a badare solo a ciò che ci attrae emotivamente, senza cercare le ragioni pro o contro che vi possono sottostare; finalmente, una serie di altre componenti che creano un po’ alla volta e nella peggior maniera la mentalità massmediale, che è sostanzialmente «il prendere il ciò che appare per il ciò che è; e il ciò che piace (o si sente emotivamente) per il ciò che vale».</b>

<b>La mentalità massmediale viene prodotta a tutti i livelli della recezione massmediale, se non si esercita la «lettura», ma essa avviene in maniera ben più rapida e penetrante in chi, appunto, affronta le tv con la spensieratezza del «saltellante».</b>

<b> </b>

<b>Presupposti della «lettura»</b>

<b>«Educare alla tv» è uno dei bisogni più sentiti oggi da genitori ed educatori, i quali spesso non sanno cosa fare. Il «leggere la tv» costituisce in qualche modo l’indispensabile premessa. Ma per poter «leggere», occorre mettersi davanti al televisore in un certo stato d’animo che coincide col rispetto (per dir così) di alcune convinzioni di fondo. Sono i «presupposti» alla lettura. </b>

<b> </b>

<b>Atteggiamento «attivo»</b>

<b>Atteggiamento «attivo» non significa esattamente – come si sente dire spesso – «atteggiamento critico». La differenza è che l’atteggiamento attivo è sveglio e attento a cogliere quello che effettivamente succede come comunicazione; l’atteggiamento critico, invece, è attento a cogliere aspetti di qualsiasi tipo essi siano per valutare, favorevolmente o sfavorevolmente, ma per lo più sfavorevolmente, quello che si vede.</b>

<b>L’atteggiamento critico può essere utile o anche indispensabile; ma a suo tempo e luogo.</b>

<b>Va sottolineato, infatti, che non si può valutare ciò che non si conosce; e, per conoscere una comunicazione televisiva, non basta «vederla», bensì è necessario averla «letta». E l’atteggiamento attivo è proprio quello che dà la possibilità, assieme ad altro, di porsi in «lettura». Si può certo vedere (e quindi conoscere) se una rappresentazione è immodesta o scorretta, ma – l’abbiamo già detto – la vera comunicazione tv non è in quel che si vede e si sente, per quanto anche questo possa avere un suo influsso diretto, negativo o positivo. </b>

<b>Orbene, mettersi in atteggiamento «attivo» significa praticamente apprestarsi a «leggere» dei messaggi e non a trastullarsi in visioni più o meno interessanti o spettacolari. Uno che si mette alla tv pensando: «Vediamo cosa c’è!» oppure «Sentiamo le novità!», sbaglia già in partenza, perché si mette nella disposizione di assorbire passivamente quello che gli verrà dato, anziché in quella di considerare la vera comunicazione che gli viene offerta.</b>

 

<b>Direi che la condizione veramente fondamentale è quella di mettersi davanti alla tv convinti di trovarci davanti, sì, a una «finestra sul mondo», ma una finestra con i vetri chiusi e colorati.</b>

<b>In altre parole, la televisione ci offre non una visione della realtà, bensì un’interpretazione soggettiva e personale della realtà che ci si fa vedere e ascoltare. E questa interpretazione è quella dell’autore o degli autori delle immagini che ci si propongono. Non è detto che questa interpretazione sia sempre errata; tutt’altro! È detto però che conoscere la realtà è cosa ben diversa dal conoscerne una interpretazione di fatto, sul piano ontologico, sia un tavolo sia la sua immagine sono «realtà»: come certo tipo di oggetto (mobile), il tavolo; come immagine di quel certo oggetto, l’immagine. Sul piano esistenziale, un tavolo è la realtà e la sua immagine ne è la finzione. Sul piano semiologico, infine, la realtà che noi consideriamo è l’immagine di quel tavolo, mentre il tavolo vero ne è la finzione (potrebbe anche non esserci più o non essere mai esistito come oggetto, ma solo come riproduzione pittorica), dal momento che quello che ci interessa è l’immagine. Si pensi ai quadri, ad esempio di Picasso: che cosa ci interessano – sotto il profilo artistico o estetico o anche solo commerciale – la donna o la poltrona che egli ha ritratto nel quadro «donna in poltrona»?</b>

 

<b>Questa fondamentale condizione noi la esprimiamo con l’assioma: «L’immagine di una seggiola non è una seggiola; la notizia di una pistola che spara non è una pistola che spara».</b>

<b>Questa è veramente il presupposto di fondo; il primo e fondamentale anche nella pratica.</b>

<b>È un presupposto che vale per ogni tipo di segno, anche per quello verbale (ad esempio, la notizia di un evento); ma vale soprattutto quando si tratta di tv, perché la tv presenta accostate e mescolate le due famiglie dei segni concettuali e contornuali.</b>

<b>Il criterio è un po’ più facile da cogliere col segno verbale, perché quando uno si sente dire che un albero è caduto o che un individuo è nato o morto o che un tale è stato arrestato, è ben difficile che pensi di avere davanti a sé quell’albero caduto o quel neonato o quel morto o quella persona in manette.</b>

<b>È più difficile, invece, col segno audiovisivo (cinema e tv), perché abbiamo l’illusione di trovarci di fronte alla realtà.</b>

<b>In altre parole, quando siamo di fronte all’immagine di una persona o di una pistola che spara, come si fa a non dire d’aver visto quella persona o quella pistola sparare?</b>

<b>E invece no! Noi abbiamo visto l’immagine di quella realtà; il che è ben diverso, perché ci troviamo alle prese non già con una conoscenza «per esperienza diretta», bensì a una conoscenza «per comunicazione»; vale a dire, con una interpretazione della realtà che è rappresentata; e il problema è quello di cogliere il significato del segno e non della realtà.</b>

<b>Questo criterio, quindi, è un presupposto indispensabile; ed è la buccia di banana sulla quale scivolano (e cadono) anche persone tutt’altro che superficiali e facilone.</b>

 

<b>Altro aspetto dell’«atteggiamento attivo» è quello di ricordarsi due cose. La prima che la tv è sempre business (affare). Che le tv commerciali curino il business è ovvio e, a un certo momento, indispensabile. Non possono sopravvivere senza la pubblicità; e la pubblicità rende in funzione dell’ascolto. Le trasmissioni, quindi, sono organizzate in funzione dell’ascolto e quindi è buono ciò che fa ascolto. Ma anche la tv pubblica, che pure ha il forte contributo del canone, deve curare l’audience per raggiungere i propri scopi (o che tali dovrebbero essere) di servizio. Si spendono fior di miliardi per personaggi dotati di richiamo erotico o di physique du ròle, sovente senza alcun spessore culturale o anche morale e sociale. Comunque, sempre e comunque business. Così, il pubblico ha la tv che si merita; e si possono battere il petto quei responsabili che si sono preoccupati di creare o sostenere emittenti, anziché «educare alla tv» il pubblico.</b>

<b>Seconda cosa da ricordare è che la comunicazione tv è organizzata in funzione di un pubblico sempre più incretinito e non di un pubblico tredicenne (come avveniva agli inizi della tv italiana).</b>

<b>Anche questa considerazione può sembrare eccessiva, per non dire pazzesca. Ma non lo è, come ben sa ad esempio un pubblicitario, che non può sbagliare campagna, pena il rimetterci il posto o soldoni.</b>

<b>È questa una convinzione o condizione ben difficile da far accettare: una persona di scarsa cultura non l’accetta perché la presunzione è figlia dell’ignoranza; e una persona di cultura crede di avere in mano mezzi sufficienti per non lasciarsi abbindolare. Ma non è così la mentalità massmediale ha ben poco a che fare con la cultura intesa come ricchezza di conoscenze e quindi conseguente capacità di conoscere il mondo con una certa cognizione di causa.</b>

<b>Questa «cultura» o mentalità massmediale si caratterizza per essere fondata non già su conoscenze o esperienze avute allo «stato riflesso» – cioè rendendosi conto di riceverle e quindi avendole potute vagliare alla luce della ragione e dell’esperienza – bensì su idee entrate in noi allo «stato d’opinione», cioè senza che le potessimo passare al vaglio della nostra intelligenza e delle nostre capacità di scelta.</b>

<b>Non ci si devono quindi fare illusioni; ma perseguire con coraggio nella strada dell’educazione del pubblico, cominciando dai bambini.</b>

 

<b>Criteri-base della «lettura», dopo aver parlato dei «presupposti» della «lettura», vediamo ora i «criteri» della «lettura» stessa. Poi cercheremo di entrare più direttamente sul concreto dei modi di «leggere».</b>

<b>Cerchiamo di riassumere tutto il complesso discorso della «lettura»</b>

<b>in due criteri-base.</b>

<b>Nell’applicarli, essi sono meno semplici di quanto non sembri a</b>

<b>prima vista; ma con un po’ di buona volontà e di esercizio diverranno familiari e quasi automatici, un po’ come guidare l’automobile, che richiede una certa paziente esercitazione all’inizio, ma poi diventa quasi istintivo. C’è però una certa differenza: con la macchina, all’inizio ci accorgiamo subito se abbiamo capito o non capito, perché o la macchina non va o andiamo contro un muro; qui invece ci potremmo far l’illusione d’averli capiti e di saperli applicare prima del tempo.</b>

 

<b>Cosa-come-perché</b>

<b>Il primo criterio è quello del «cosa-come-perché». Precisamente: cosa fa vedere e sentire lo schermo in questo momento? come fa vedere e sentire quello che fa vedere e sentire? perché ha fatto vedere e sentire in quel modo quello che ha fatto vedere e sentire?</b>

<b>Cioè: perché lo schermo televisivo ha dato quel cosa con quel come?</b>

<b>Questo criterio – che è fondamentale per la conoscenza di tutto e non solo delle comunicazioni televisive – richiede una qualche illustrazione.</b>

<b>Il cosa è quello che vediamo e sentiamo, ad esempio una persona che parla o una notizia illustrata di guerra; ma non dobbiamo dimenticare che quello che vediamo non è la persona che parla o l’evento di guerra mostrato dalla notizia, bensì ne è solo un’immagine; il che significa che ne è una interpretazione e non (se non in parte) un’informazione. Enorme constatazione di fondo, sulla quale di solito sorvoliamo, come già accennato più volte.</b>

<b>Il punto è proprio quello di riuscire, per quanto possibile, a spogliare la notizia di quella patina o crosta interpretativa, per cogliere, per quanto possibile, la verità di quell’evento di cui ci si dà notizia. Se non si parte da questo presupposto, è inutile andare avanti.</b>

<b>Questo cosa, dunque, è un cosa semiologico (segno di una realtà), non un cosa ontologico o esistenziale (cioè, realtà vera e propria). Vuol dire che anche il come dovrà essere considerato come semiologico.</b>

 

<b>Ma, attenti bene! La tv ci mostra una certa storia: un conduttore di varietà che ci presenta balletti e personaggi, ecc., oppure un film o un telefilm che ci racconta un storia (inventata) oppure un Maurizio Costanzo che ci presenta e ci fa parlare dei personaggi. Tutto questo ha un certo sviluppo di storia: ad esempio, prima entra il conduttore, poi presenta Tizio e Tizio entra, poi dice «Consigli per gli acquisti» e si vede della pubblicità, ecc. ecc.</b>

<b>Questo sviluppo di storia avviene nella realtà o anche nella realtà della finzione scenica (nei film e analoghi). Ma noi non vediamo quella realtà, bensì ne vediamo l’immagine; la quale immagine però viene strutturata in cabina di regia proprio perché lo spettatore sia informato di quello che succede in quella realtà. Ma supponiamo che il regista a un dato punto, mentre uno parla, faccia vedere in dettaglio il volto di una persona che ascolta, per mostrare l’interesse che questa ha per quello che viene detto da quell’altro. Quella persona che ascolta fa parte di quella realtà, magari pure con interesse; ma nella realtà esiste la persona, non il dettaglio del suo volto e la sottolineatura del suo interesse.</b>

<b>L’immagine di quella realtà, quindi, ha due aspetti di quella realtà: l’aspetto di riproduzione informativa circa quella realtà e l’aspetto di dizione autonoma dell’immagine, cioè il suo aspetto interpretativo. Supponiamo che il regista, per farci credere che quel tale dice cose interessanti, inserisca nella trasmissione l’immagine di una persona che di fatto non c’è in quella sala o che sta ascoltando un’altra persona: l’informazione circa quella realtà è, almeno in parte, fasulla; ma l’interpretazione è reale, sia essa più o meno conforme alla realtà di cui ci dà informazione.</b>

<b>Ci troviamo quindi di fronte a una realtà che ha una sua verità… storica (varietà, tg, ecc.), cioè uno sviluppo nel tempo e nello spazio; e a una realtà – l’immagine televisiva – che la riproduce, rispettandone in qualche modo lo sviluppo nel tempo e nello spazio, ma intervenendo con propri modi di riprodurre o addirittura di interpolare, specificando o aggiungendo significati.</b>

<b>Mentre la realtà, quindi, ha solo la propria realtà esistenziale, con un proprio «cosa-come-perché», l’immagine che la riproduce ha due propri «cosa-come-perché»: </b>

 

  1. <b>a) quello derivante dal fatto di riprodurre lo sviluppo nel tempo e nello spazio di quella realtà; sotto questo profilo essa è «narrazione», più o meno fedele di quello sviluppo narrativo e i suoi «come» sono detti modi narrativi; </b>

 

  1. <b>b) quello derivante dal fatto di dare una propria versione o interpretazione di quella realtà; sotto questo profilo, essa è «interpretazione autonoma» di quella realtà, in forza dei propri modi, i quali sono detti modi semiologici. </b>

 

<b>In altri termini, il «cosa» dell’immagine televisiva è la «narrazione» con i «come» dell’evento (che in qualche modo diventano anche i «come» dell’immagine [modi narrativi]) e il suo «come» sono praticamente i modi semiologici, attraverso cui – appunto – l’immagine diventa «interpretazione» più che «narrazione».</b>

<b>Possiamo dire allora che la «realtà» (l’evento) ha il suo sviluppo nel tempo e nello spazio ed è quella che è; l’«immagine televisiva», invece, ha una sua «struttura narrativa», la quale fino a un certo punto è o può essere informativa, ma che di fatto è interpretativa, perché essa non può prescindere da propri «modi» di riprodurre la realtà; e quindi anche la sua «struttura narrativa» è sempre semiologica, cioè esprimente l’interpretazione dell’autore dell’immagine.</b>

 

<b>Analogo discorso per il «perché».</b>

<b>L’evento, nella realtà, ha il suo «cosa-come-perché» (ad esempio informare, fare spettacolo, ecc.); l’immagine televisiva ha un suo proprio «perché», che è quello che deriva dai suoi «modi semiologici». In una parola, a costo di annoiare, il «cosa-come-perché» che ci interessa nella lettura è quello dell’immagine televisiva e non quello della realtà rappresentata. È una constatazione lapalissiana, ma difficile da digerire, perché il dato esperienziale a prima vista non ci aiuta, così come ci è difficile ammettere che la carne di cane o di gatto o di serpente sia buona da mangiare.</b>

 

<b>Tre livelli della comunicazione</b>

 

<b>Il secondo criterio è che il «cosa-come-perché» va applicato a tutti e tre i livelli ai quali avviene la comunicazione: livello dell’informazione materiale; livello della comunicazione tematica; livello dei fondi mentali e delle comunicazioni inavvertite, tenendo ben distinti i due settori: fondi mentali e comunicazioni inavvertite.</b>

<b>Fondi mentali sono quelli dell’autore che operano consciamente o inconsciamente nelle scelte che egli sta operando nella realizzazione del segno. Comunicazioni inavvertite sono quelle che risultano nella mente del fruitore del segno. A ciascuno di questi livelli va esaminato il «cosa-come-perché» di quello che una trasmissione ci fa vedere e sentire. Ma va notato che c’è una relazione in questi tre passaggi: i «come» che non trovano risposta esaustiva al primo livello devono trovarla nel secondo e così via.</b>